domenica 4 maggio 2008

Look or griffe...??

Le perle di sagezza stilistica...


"Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose, ci si può spingere a cercare quel che c’è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile." (Italo Calvino)

Vestirsi per essere: un illusione antica come Cenerentola, ma che ha assunto un significato e una forza nuova negli ultimi decenni.
Vestirsi per essere, ma anche per convincersi di essere, per far credere di essere o per mostrare quello che non si è. E ancora per rendere pubblica, con un atto di libera scelta, la propria appartenenza: a un’idea, a una classe sociale, a una fascia d’età, a un gruppo.
Se l’eclettismo, il travestimento, l’attenzione per la superficie e per la spettacolarizzazione del vestire sono i tratti peculiari del nuovo modo di essere “alla moda” dei primi anni Ottanta, il termine per definire questa nuova attitudine alla ricerca della forma effimera e artificiale del proprio corpo è “Look”. Questa parola inglese – traducibile con aspetto, sembianza, immagine – entra nel vocabolario comune e diviene la nuova bandiera del decennio: tutti devono avere un look, una sembianza che faccia apparire diversi da come si è nella realtà, un’immagine sociale a metà tra la maschera e lo stile che “non è neppure narcisismo, è un’estroversione senza profondità, una specie di ingenuità pubblicitaria dove ognuno diventa l’impresario della propria apparenza”.
Con il consolidarsi di questa nuova estetica dell’innaturale e dell’artificiale, la gestione personale ed autonoma della propria immagine diventa il contenuto principale della presenza sociale: avere un look basta per divenire eccellenti più di qualsiasi altro simbolo di status sociale.
Un certo look può accomunare tutti, senza distinzione di classe: l’intellettuale e il rockettaro, il politico e l’uomo di spettacolo, il borghese e l’emarginato, ed è il look, valore universale, che ‘si ha o no’, a servire da quoziente o da indice di selezione.
“L’aspetto esteriore diventa un test quotidiano di abilità, in cui, che con una serie di involucri e confezioni, l’individuo cerca di mettere in evidenza il proprio aspetto migliore per catturare l’ammirazione e il consenso, o anche il disprezzo o la ripulsa”.
L’assunzione di un look non è che la cosciente spettacolarizzazione si se stessi, la messa in scena di una recita, di un travestimento, di un apparenza che diviene realtà permettendo una democratizzazione senza precedenti, ma anche la nascita di nuove categorie di status. Si può avere il look giusto e allora si è in, si è accettati, ma si può avere il look sbagliato è allora si è out e si rischia di essere emarginati.
Il look allora diventa un modo di presentarsi con una serie di informazioni di sé che deve essere compreso immediatamente dagli altri e che deve comunicare il massimo nel minor tempo possibile, che consente il riconoscimento dell’appartenenza o no ad un gruppo attraverso una rapida decodifica dei segnali esteriori.
Con la ricerca di un fascino legato alla funzione rappresentativa dell’immagine, e non più alla bellezza e alla seduzione, il look diventa un modo per sfuggire all’appiattimento delle regole vestimentarie, dalla consuetudine delle maschere sociali, dalla banalità del quotidiano e inoltre un modo per giocare con lo sguardo degli altri, scegliendo il proprio travestimento a seconda delle circostanze, dello stato d’animo e del messaggio che si vuole comunicare.
Con il diffondersi capillare di questa estetica dell’apparenza nel tessuto sociale, la moda diventa spettacolo continuo e assume sempre più un carattere ludico, evasivo, non impegnato, in cui anche le devianze e le trasgressioni, incanalando l’energia e l’aggressività nella sublimazione simbolica del look, diventando rivoluzioni inoffensive che non intaccano l’ordinamento del sistema se non nei suoi contenuti estetici.
Allora la Moda è uguale a identità sociale, uguale al desiderio di immagine.Una moda che si indossa per gli altri con l’ elemento nevrotico che ben si può immaginare in un circolo vizioso che si trasforma in una sentinella del piacere voyeuristico-esibizionistico. Diventa una funzione desiderata che ogni persona può coltivare ed indirizzare, allorché il principio della realtà non soddisfi completamente le esigenze interne di equilibrio con se stessi.
Nell’era delle apparenze, la parola magica è griffe indossata, tutto il resto scompare: è sufficiente il nome dello stile per far dimenticare il fatto, che poi in quei panni non si rende narcisiticamente al 100% delle possibilità estetiche, e magari non ci si sta neppure così comodi. Ma tant’è la potenza della griffe che ci si guarda con una nuova vista, una seconda vista.
Per questo si diventa protagonisti, attori, uomini-donne spettacolo: si diventa un qualcuno in griffe che fa molto nobile, apprezzato, aristocratico: un bisogno di emergere, di farsi riconoscere che sta proprio al di là della griffe: averla lì appesa nel guardaroba, per poter cambiare “pelle”, la seconda pelle, quando meglio si voglia.Fa sì che per sentirsi parte del tessuto sociale, che emargina, ci si debba in qualche modo uniformare a idee di abbigliamento, anche trasgressive a canoni classici, ad adoperare un continuo cambio di seconda pelle che vorticosamente ruota attorno ai giovani.
Lo specchio che attrae e incanta, che spinge all’acquisto del capo che poi diventa frustante perché sorge un nuovo diktat, che si situa addirittura all’interno della stagione stessa in una spirale di look diversificati a seconda delle griffes.
Stare irrefrenabilmente al passo con mode effimere, ipnotizzati da pubblicità mascherate da packaging accattivanti. Abbandonarsi all’ossessione del marchio, alla sindrome dello shopping compulsivo per garantirsi l’appartenenza ad un’élite, per soddisfare lo sfrenato edonismo o più semplicemente per sopperire bisogni sempre più spesso latenti. Attingendo dal metropolismo di De Pascale che concepisce la griffe come status symbol, un universo consumistico con codici di omologazione della società contemporanea, satura di slogan, griffe e spot. tutto concorre ad esplorare l’ossessione feticista della moda e la seduzione dello shopping come elemento incondizionatamente legato alla quotidianità, che non si limita al coinvolgimento dell’universo femminile ma si estende anche agli stereotipi maschili. Non lontana dall’ironia provocatoria la frenesia consumistica assume in questo frangente un’accezione ambigua sconfinante talvolta nella patologia ed in parte accostabile alla drammatica visione del potere di consumo.
La derivazione dalla cultura pop dei marchi tridimensionali si ritrova nell’assemblaggio di firme sotto vetro e nell’installazione fotografica dove le immagini patinate si concedono all’ansia abulimica del consumatore globale, tra le ironiche posture impacciate della fashion victim di turno, che nella febbre d’acquisto accumula bags griffate, e le pose plastiche - con dichiarati echi alla statuaria classica - dei protagonisti immortalati. La purezza esasperata delle immagini costruite con cura maniacale, la predilezione di pose palesemente tratte da stereotipi mediali e le espressioni ammiccanti sottolineano una visione artificiale di una realtà nell’era cruciale della simulazione. L’ossessione di possesso, la mercificazione della cultura e la degenerazione del consumo sono alla base del ritratto spietato, ma al contempo ironico e che non prescinde da una certa leggerezza estetica, di una società standardizzata ed alienante dove l’individuo cede il proprio corpo, negando l’identità di appartenenza, per tramutarsi in facile strumento di diffusione del logo. Tra artificiosità e provocazione, per Elisabetta Falqui il consumatore è un lavoratore che non sa di lavorare - per parafrasare Baudrillard - dominato dal simulacro dei media. Vittima inconsapevole della griffe.

Tutto sta a trasformare la nostra epoca non nel segno della moda ma nella moda che è stile: è nello charme, nell’eleganza, che non la si trova sugli altri, ma la si trova in noi stessi. Allorché, liberi, sappiamo indossare quel che vogliamo indipendentemente dalla griffe, con la scioltezza e la sicurezza di vestire noi stessi e non di travestire un corpo che non conosciamo se non attraverso le apparenze di passerelle esclusive e di mitizzazioni spersonalizzanti.
Stile non vuol dire necessariamente moda.



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