martedì 6 maggio 2008

Altro che made in Italy...

Il Tabloid inglese Sunday Mirror accusa:

«Le griffe italiane sfruttano gli operai cinesi a Prato»

Dolce & Gabbana, Gucci e Prada, alcuni dei simboli italiani della moda, sono finite oggi nel mirino del tabloid domenicale britannico Sunday Mirror perché i loro capi - è l'accusa del giornale - sarebbero confezionati in parte da immigrati cinesi in Italia pagati 3 euro l'ora.

I costosi vestiti, le scarpe e gli accessori delle tre case di moda, secondo il Sunday Mirror, sono infatti almeno in parte prodotti a Prato da un esercito di lavoratori cinesi malpagati e spesso persino clandestini.

Da più di venti anni migliaia di immigrati cinesi arrivano nella città toscana - 180mila abitanti e 4mila aziende di vestiti - in cerca di lavoro e soldi. Ma se un quarto del settore tessile a Prato è oggi in mano cinese, a fronte di 2mila imprenditori ci sono ben 25mila lavoratori sottopagati. Uno su cinque - sostiene sempre il Sunday Mirror nel pezzo - non ha neppure i documenti.

«Sì, molti di noi sono qui illegalmente, ma siamo venuti per avere una vita migliore, che c'è di sbagliato in questo? E lavoriamo sodo», ha detto Lee "Alessia" Hu, arrivata a Prato con la famiglia 10 anni fa dalla provincia cinese di Fujian e assunta alla Gucci come ragioniere quando era ancora una teenager. «Gli italiani lo sanno, ma non si vergognano di pagarci quasi nulla. Il salario minimo di un italiano sono cinque euro all'ora, noi ne riceviamo appena tre. Quando ho protestato, mi hanno licenziata». La 22enne lavora adesso come cucitrice in una delle centinaia di aziende di proprietà cinese che ricevono lavoro dalle grandi case di moda, e per massimizzare i profitti sfruttano anche manodopera illegale.

A dirigere una di queste aziende è Monica Ye, 35enne cugina di Lee, insieme al marito Fabio, anche lui cinese ma, come nel caso delle due donne, ribattezzato con un nome italiano per potersi integrare più facilmente. «Mi spediscono il materiale e i miei operai cuciono, incollano e rifiniscono le borse», ha spiegato Fabio, subfornitore per Dolce & Gabbana. «Pago i miei 100 dipendenti 3 euro all'ora ma sono felici. Vivono in un dormitorio sopra l'azienda e provvedo al loro vitto. D&G vende le borse fino a 1.500 euro l'una».

Un operaio dell'azienda, arrivato in Italia lo scorso anno dalla provincia di Zhejiang con un visto da studente, descrive però la situazione in maniera molto diversa. «La vita è dura. Le mie dita sono rimaste incastrate in una delle macchine da cucire sei mesi fa», ha raccontato mostrando due dita mancanti dalla mano destra. «Il boss era furioso, ha dovuto pagare 35 euro per farmi vedere da un dottore. Il dolore ancora oggi è tremendo. Il capo dice che devo lavorare giorno e notte per ripagarlo, ma che scelta ho? Almeno ho cibo e un tetto. In Cina, non avevo nulla».

Ma a questo punto sorge una domanda: come si può chiamare Made in Italy una sottoproduzione sottopagata di operai extracomunitari e per di più senza i costi della delocalizzazione in un paese straniero?

Basta importare la manodopera a basso costo e il gioco è fatto.

Ma allora non vantiamoci troppo del settore della moda in cui "regnamo" con tanto di consacrazioni all' Altare della Pace per gli stilisti, in una sorta di mondano Olimpo, gli "altarini" poi vengono fuori con tutto il contorno di "caduta di stile".

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